mercoledì 29 dicembre 2010

L'uomo di Denisova: un'altro Homo recente e i suoi riflessi dalla Siberia sulla genetica dell'Oceania

Nell'anno che sta finendo ci sono state alcune scoperte importanti sull'origine dell'Uomo moderno
Per prima cosa abbiamo assistito ad un clamoroso stravolgimento delle opinioni sui rapporti fra sapiens e neandertaliani: era opinione diffusa fra gli addetti ai lavori che Homo sapiens e Homo neandetalensis, oltre ad essere due specie diverse, non si erano mai incrociati o, meglio, se si fossero accoppiati non sarebbero stati in grado di generare o ne sarebbero nati ibridi non fecondi. C'era una minoranza che non pensava così, soprattutto sulla base di un ritrovamento di uno scheletro giovanile nella penisola iberica. 
Su come la maggioranza pensasse impossibile un fatto del genere mi ricordo di aver letto un libro di antropologia serissimo (ma non mi ricordo quale) in cui l'autore, vista la libido dell'Uomo moderno che prevede anche episodi di zoofilia, diceva qualcosa tipo “volete pensare che nessun sapiens si sia accoppiato con una neandertal? Se non ci sono tracce genetiche è perchè ormai erano due specie diverse le cui unioni non potevano dare seguito!”.
Cioè a questo autore – ripeto, serissimo – suonava strano che non ci fossero stati rapporti sessuali reciproci fra le due specie, per cui concludeva che erano specie diverse e piuttosto lontane geneticamente.

Nel 2010 invece è venuto fuori che nel genoma di Homo sapiens ci sono davvero piccole parti di quello neandertaliano. Quello però che stupisce è la data di questa ibridazione, probabilmente avvenuta in una unica fase tra 60 e 80 mila anni fa in Medio Oriente, durante il primo contatto fra UAM (uomo anatomicamente moderno) e neandertaliani. Ricordo che l'arrivo molto ritardato in Europa dei sapiens lo dobbiamo soprattutto al blocco della nostra espansione nel Mediterraneo proprio dovuto ai neandertaliani, per cui i nostri avi scesero verso l'Asia sudorientale arrivando poi in Europa via Siberia molto più tardi.

Quindi non è stata trovata nessuna prova genetica di ibridazioni successive, quando i sapiens sono migrati verso ovest dall'Asia nordorientale. Oggettivamente  questo lascia perplessi.
L'unica spiegazione che mi viene in mente è che forse le popolazioni europee neandertaliane, molto scarse ed isolate fra loro, nel periodo successivo al contatto con i sapiens nel medio oriente, hanno subito una deriva genetica tale da differenziarsi troppo dal tipo ancestrale per permettere la riproduzione. Resta il fatto che contatti fra le due specie ci sono stati e sembra, come scrissi qualche tempo fa, che in una grotta i Cro-magnon abbiano addirittura disegnato dei neandertaliani.

Ma la seconda e forse più clamorosa scoperta dell'anno è quella di una terza specie umana trovata nei monti Altai, e detta “uomo di Demisova”, dalla località in cui sono stati trovati nel 2008 questi resti (niente di trascendentale, una falange di un dito di un individuo giovane...) databili approssimamente fra 30 e 50 mila anni fa. Il tutto si legge on-line su Nature, in un articolo firmato da David Reich e altri 27 autori fra i quali Svante Paabo, primo frmatario dell'importante testo sulle ibridazioni Neandertal – Sapiens della scorsa primavera.

La sorpresa è stata quando esaminatone il DNA, è venuto fuori che le differenze tra quel genoma e quelli di sapiens e neandertal sono tali da considerare quel resto appartenente ad una specie diversa, un terzo homo che viveva all'epoca sulla faccia della Terra (o, meglio, un quarto, se si considera specie a sè stante Homo floresensis). Nella figura i Demisovani sono correlati con una serie di reperti di neandertal e , di sapiens attuali. È stato in seguito analizzato anche un dente di un giovane adulto, ritrovato nel 2000 nello stesso contesto stratigrafico e che presenta anch'esso differenze significative con i tipi corrispondenti degli altri Homo ed è più simile a quelli di Homo erectus e delle australopitecine. Da un punto di vista genetico invece è ben collegabile alla falange.

I dati appaiono un po' contraddittori. Analizzando il DNA mitocondriale lo split fra Demisovani e Neandertaliani daterebbe a quasi 1 milione di anni, ma questo risultato va preso con le molle: una selezione positiva di alcuni caratteri e la deriva genetica possono influenzare molto di più il DNA mitocondriale, trasmesso solo per via femminile, rispetto a quello nucleare.

In quanto al DNA nucleare, la cosa più sorprendente è la presenza in alcune regioni di somiglianze maggiori con gli scimpanzè che con sapiens o neandertal. Un tratto estremamente ancestrale che contrasta con la maggior parte dei dati, in base ai quali Demisovani e Neandertal sono sister groups rispetto ai Sapiens in posizione esterna.

Resta a capire perchè ci siano dei geni (e delle morfologie) di forma così antica. Ci sono 3 possibilità:
- caratteristiche comuni perse da Sapiens e Neandertaliani
- ibridazione con altri uomini più primitivi che abitavano nell'area come appunto Homo erectus
- atavismo

Direi che quella più probabile è la seconda: se, fino a poco tempo fa l'ibridazione fra “specie” umane diverse era ritenuta impossibile, ora non è considerata più tale
Sulla possibile diffusione dei Demisovani (gli Autori hanno preferito per adesso non coniare una denominazione tassonolica linneiana) si possono fare diverse ipotesi, ma secondo la genetica è veramente possibile che il loro areale sia stato piuttosto vasto e lo vediamo dai rapporti genetici fra loro e gli altri Homo.

I Demisovani non condividono con i neandertaliani quella parte del genoma Neander che è finita nel patrimonio genetico degli euro-asiatici, come era logico aspettarsi visto che la separazione fra queste due popolazioni è anteriore all'ibridazione avvenuta in Medio Oriente. Ma c'è una sorpresa: tra l'1 e il 4% del DNA dei melanesiani ha tratti demisovani. Quindi gli antenati dei melanesiani erano quantomeno in contatto con parenti stretti di questi abitanti degli Altai e siccome nessuna delle popolazioni residenti in Asia ha oggi queste caratteristiche, bisogna pensare che il loro areale fosse discretamente vasto.

Tanto per evidenziare la geografia di quell'area piuttosto a noi sconosciuta, la Melanesia comprende la Nuova Guinea e le isole vicine, fino alle Fiji e alle Vanuatu (ex nuove ebridi). La Polinesia è ad est della Melanesia mentre la micronesia è a nord.

I polinesiani hanno delle forti affinità genetiche con popolazioni autoctone taiwanesi (oggi minoritarie dopo la conquista cinese), mentre i melanesiani sono più affini agli australiani (anche se la Nuova Guinea è una delle aree a maggior diversità genetica e linguistica della Terra) e dovrebbero più facilmente provenire dall'Asia meridionale attraverso l'Indonesia.
Questa strana connessione fra Melanesiani e Demisovani si aggiunge ad altre stranezze dell'Asia meridionale come le varie popolazioni isolate di Negritos (diffuse fra le Andamane, l'Indonesia e le Filippine), l'Homo floresensis e gli strani reperti di Palau.

Insomma, il percorso che i pionieri della genetica umana come Cavalli Sforza hanno disegnato, con l'uscita dall'Africa di una piccola popolazione che poi si è espansa in Eurasia e negli altri continenti rimane sempre valida ma, come spesso accade nelle scienze, il quadro è un po' meno semplice di quello inizialmente pensato.

lunedì 27 dicembre 2010

la possibilità di monitorare l'attività vulcanica tramite fulmini

Tempo fa mi occupai, su sollecitazione di un lettore, della questione dei fulmini collegati alle eruzioni vulcaniche.
Oggi c'è un aggiornamento importante: proprio grazie ai fulmini che si producono nelle nuvole di cenere che li sovrastano è possibile scoprire che qualche vulcano è entrato in eruzione.

In Italia potrà sembrare strano, dato che i nostri vulcani sono monitorati costantemente, a parte il Marsili purtroppo (della cui esistenza il grande pubblico si è probabilmente scordato dopo il can-can di qualche mese fa), ma nel resto del mondo non è sempre così; soprattutto questo succede in zone dove i vulcani hanno caratteristiche esplosive, per esempio 
- sulle Ande dove non c'è neanche certezza su quanti e quali siano quelli potenzialmente attivi (ne ho parlato qui)
- nella zona tra Kamchatka e Aleutine 
- e un pò più a sud, sempre nel Pacifico

La maggior parte delle notizie su nuove eruzioni  in queste aree arrivano soprattutto dai VAAC (Volcanic ash advisor centers), legati alla navigazione aerea che, come ha dimostrato la recente eruzione dell'Eyafjallayokull, è particolarmente sensibile al problema, oppure dai satelliti e persino dalla osservazione diretta da parte del personale di bordo degli aerei.
 Ricordo che durante l'eruzione del Redoubt nel 2009 un jet olandese mentre inavvertitamente ne attraversava la nuvola di cenere rischiò di precipitare per il contemporaneo spengimento di tutti e 4 i reattori che entrarono in allarme a causa delle particelle entrate nelle turbine. L'aereo riuscì successivamente a riaccenderne 2 ed atterrare a Anchorage. Si contano quasi 100 casi di gravi disturbi alle aeromobili dal 1954).
Riuscire ad allertare prima possibile l'aviazione civile è quindi fondamentale per evitare problemi ai motori degli aerei, le cui turbine potrebbero essere danneggiate fino all'interruzione del funzionamento dalla cenere vulcanica, notoriamente molto abrasiva.

La mancanza di sistemi di monitoraggio su centinaia di vulcani potenzialmente pericolosi fa sì che ogni mese ne entrino in eruzione diversi senza che qualcuno abbia potuto prevederlo e qunindi non potendo predisporre le necessarie deviazioni del traffico aereo. Eppure  si potrebbero ottenere le evidenze dell'inizio di un evento eruttivo da parecchi mesi a qualche ora prima che accada (è comunque ancora praticamente impossibile capire sia quanto durerà un'eruzione che la sua evoluzione al di là di poche ore), basta avere degli strumenti adatti (e oggi non sarebbe  tecnicamente impossibile con apparecchiature attivie in remote sensing).

Oggi presento un sito che, grazie ad uno studio della Università dello Stato di Washington, sta iniziando a scoprire l'insorgenza di una eruzione vulcanica quasi in tempo reale grazie proprio allo studio dei fulmini. Si tratta del WWLLN, World Wide Lightning Location Network. Questa è la mappa mondoale di un'ora prima rispetto a quando sto scrivendo queste note.
Il sistema è nato nel 2004 con meno di 10 stazionii; adesso comprende oltre 50 sensori collocati in tutto il mondo, costituiti da antenne in grado di riconoscere il "segnale" dei fulmini, una scarica in un certo intervallo di frequenze nelle onde radio (chi ha usato una radio AM sa che a meno di una frequenza occupata da una radio dal segnale molto chiaro i fulmini erano chiaramente percepibili). In base ai tempi di arrivo del disturbo in almeno 5 stazioni il WWLLN individua il luogo di caduta del fulmine in tempo reale ed è in grado di intercettare circa il 10% dei fulmini che cadono, ma oltre il 40% di quelli più potenti.


John Ewert, vulcanologo del Cascades Volcano Observatory (emanazione del Servizio Geologico degli Stati Uniti) ha quindi avuto l'idea di utilizzare il WWLLN allo scopo di monitorare i vulcani dopo le famose osservazioni sui fulmini dell'eruzione del Redoubt del 2009  Tali osservazioni furono attivate dopo la curiosità che questi fenomeni avevano innescato durante l'eruzione del Chaiten, in Cile e gli studi sulla eruzione del Redoubt nel 2009.
Ogni mese sulla Terra si abbattono oltre 3 miloni di fulmini e quelli vulcanici sono una minoranza molto esigua ma hanno delle caratteristiche particolari soprattutto nella loro distribuzione che, ovviamente, non segue i movimenti delle perturbazioni atmosferiche. Perciò una nuova serie di fulmini che si concentra inaspettatamente al di sopra di un vulcano è un chiaro sintomo di una eruzione in corso.

Essendo nello stato di Washington, all'estremo nord-est del Paese, le centinaia di vulcani lungo l'allineamento Kurili – Kamchatka – Aleutine, in gran parte privi di monitoraggio in loco, costituiscono un eccellente banco di prova e così è stato: in un mese il team di Ewert è riuscito ad individuare due eruzioni in Kamchatka, allo Shivelukh e al Kizimen, prima che venissero rilevate dai satelliti. Ci sono stati anche dei “falsi positivi” che comunque hanno aiutato il software di riconoscimento a funzionare meglio. Attualmente possono essere coperti dal sistema circa 1500 vulcani.

Purtroppo almeno per adesso questa tecnica è difficilmente adottabile nelle zone equatoriali, dove i fulmini dovuti ai temporali sono molto più intensi ma Robert Holzworth, il coordinatore del WWLLN è fiducioso: implementazione del software e nel numero e nella posizione delle stazioni di rilevamento (che alla fine non sono oggetti troppo complessi tecnicamente) potrebbero determinare una precisione maggiore del sistema ed includere normalmente nel sistema di allarme i vulcani della fascia tropicale.

domenica 26 dicembre 2010

Le strane pinne dei pesci-mano e di altri pesci

È fuori dubbio che l'Australia, a causa del suo isolamento, mostri faune e flore assolutamente particolari, capitanate dai classici canguri. Questo succede non solo nella terraferma ma anche nei mari che circondano il continente – isola. Guardiamo questa foto: non è uno scherzo, è un pesce. Anzi, ne esistono 14 specie diverse nei fondali dei mari intorno all'Australia. Si tratta degli handfish, o “pesci-mano”. La loro classificazione è ancora incerta: le abitudini piuttosto sedentarie e un tasso di dispersione molto basso, fanno sì che gli areali di diffusione siano estremamente ristretti (anche meno di un kilometro quadrato) per cui la diffusione in più areali ma fra i quali non ci sono contatti fra le relative popolazioni (è il caso per esempio del pesce-mano maculato) fa sì che probabilmente molte di queste popolazioni si stiano avviando a distinguersi in specie diverse

La loro caratteristica principale è che 4 pinne si sono trasformate in... zampe. Sì, in zampe: i pesci-mano infatti non nuotano, ma camminano lentamente sul fondo marino. Vivono a varie profondità, da pochi metri fino addirittura ai 200 metri, l'importante è che il fondo sia roccioso.

Le branchie non sono molto visibili, a differenza di quasi tutti gli altri pesci, ma appaiono come dei piccoli pori nelle vicinanze delle pinne pettorali. La pelle non presenta scaglie ma è piuttosto liscia, tranne che per la presenza di alcune piccole spine.

Sono animali molto elusivi e anche rari, lunghi pochi centimetri, al massimo 15, molti minacciati di estinzione. Il CSIRO (il CNR australiano) ha svolto una serie di ricerche specialmente intorno alla Tasmania a proposito di questi pesci, di cui alcuni sono classificati come specie minacciate di estinzione o a grave rischio di estinzione. Si sa poco delle loro abitudini ma è assodato che il pesce-mano maculato (spotted hand-fish), di cui è in atto un grande sforzo per la conservazione, si nutre di piccoli pesci, stelle marine, vermi e gamberetti. In generale per deporre le uva hanno bisogno di superfici verticali Le femmine raggiungono la maturità sessuale all'età di 2 anni e rimangono vicine alle uova fino alla schiusa, da cui escono individui già pienamente formati.

I pesci-mano camminano sfruttando 4 pinne di cui la coppia posteriore è veramente grande e dotata di 6 raggi per pinna. Quelle anteriori hanno solo 4 raggi

Appartengono all'ordine dei lofliformi, e sono dunque parenti stretti di quegli strani pesci abissali fra i quali alcuni hanno sviluppato con la prima pinna dorsale una appendice che serve da esca.

Secondo il ministero dell'ambiente australiano anche l'Uomo sta facendo diverse azioni che ostacolano la vita dei pesci-mano: introduzione di specie che disturbano il substrato roccioso (come una stella marina probabilmente arrivata accidentalmente attaccata a qualche nave), inquinamento, aumento del contenuto di sedimenti fini dovuto alla deforestazione che aumenta il carico solido dei fiumi, i dragaggi e altre interferenze delle attività umane lungo le coste e, non ultima, la cattura di esemplari per gli acquari (dopotutto sono pesci molto particolari...). Il declino dovrebbe essere iniziato negli anni 80 del XX secolo.

Un sito creazionista avverte come non ci sia nessuna possibilità che i pesce-mano siano un anello mancante fra pesci e vertebrati terrestri, proseguendo con il solito pistolotto antievoluzionista sulla mancanza di anelli di congiunzione.
Il problema è che nessuno ha mai detto e non dirà mai una cosa del genere: i pesci-mano non sono dei “reduci” del Devoniano medio, l'età in cui  poco meno di 400 milioni di anni fa altri pesci trasformarono le pinne in zampe e nacquero i tetrapodi, in quanto gli hand-fish sono normali pesci ossei attinopterigi, quindi con le pinne a raggi, mentre gli antenati dei vertebrati terrrestri, i ripidisti, erano crossopterigi, pesci con le pinne carnose come gli odierni celecanti e dipnoi. Nei crossopterigi le pinne mostrano un sistema di ossa omologo a quello dei vertebrati terrestri, con le serie omero, radio/ulna e femore – tibia/perone. Nulla del genere esiste nei pesci-mano in cui quattro pinne inferiori si sono molto rinforzate e consentono agli animali di camminare sul fondale piuttostochè di nuotare. Al proposito bisogna notare che a causa del peso maggiore dell'acqua è più facile stare sollevati in acqua che in aria e i pesci-mano non sarebbero in grado di "camminare" sollevandosi con le pinne in atmosfera.

Quindi pesci-mano e ripidisti sono un ottimo esempio di convergenza evolutiva e gli hand-fish possono forse dare un'idea di come si comportassero gli antenati dei vertebrati terrestri, in particolare animali come Acanthostega, un pesce fornito di zampe ma ancora incapaci di sorreggere il corpo fuori dall'acqua. Con però alcune differenze: Tiktaalik, Acanthostega e compagnia vivevano in acque ancora più basse e cercavano pure di respirare aria dall'atmosfera, mentre i pesci-mano rimangono sul fondo marino respirando con delle normalissime branchie. Di certo i ripidisti hanno avuto condizioni molto più facili per abitare le terre emerse: in primo luogo, tolti degli artropodi (insetti o aracnidi) le terre emerse erano disabitate e quindi mancavano dei competitori adeguati (cosa che infatti non ha permesso successivamente ad altri gruppi di operare questo passaggio); in secondo luogo avere incominciato già nell'acqua a respirare con la bocca è stata una chiave di volta fondamentale per poter vivere all'aria aperta.

Anche la differenziazione dei pesci-mano è molto successiva a quella dei ripidisti: in particolare secondo i dati attualmente disponibili ci dovrebbe essere stata una loro fioritura all'incirca una cinquantina di milioni di anni fa, quindi nell'Eocene inferiore.

Detto appunto della strana pinna dorsale degli anger-fish, in calce al post vorrei segnalare un altro pesce dotato di pinne piuttosto particolari, anche se non viene dall'Australia, il “pesce-treppiede” o tripod-fish, Bathypterois grallator.
Questi pesci vivono in acque molto profonde e sono ermafroditi, cioè hanno sia gli organi sessuali maschili che quelli feminili, un adattamento probabilmente importante per una specie che vive in un ambiente piuttosto buio e in cui la densità della popolazione appare piuttosto scarsa. Non è un pesce molto studiato, anche per la sua elusività. Dotato di una bocca molto grande, ha gli occhi molto piccoli: la vista serve a poco nelle profondità e questo fa pensare che in qualche modo riesca a sentire le vibrazioni che le potenziali prede provocano quando si muovono.

In Bathypterois grallator le pinne anteriori e un lobo di quella caudale si sono allungate in maniera tale da consentirgli di stare sollevato dal fondo marino ed avvistare così i crostacei di cui si nutre mentre camminano sul fondo marino. Bathypterois grallator è in una ricca compagnia di pesci simili che vivono negli oceani nella fascia tropicale, e anche nel Mediterraneo (Bathypterois dubius). Evidentemente è meno faticoso aspettare la preda stando fermi su un treppiede che nuotare di continuo....

domenica 19 dicembre 2010

Gli attuali sviluppi dei progetti per sfruttare l'energia delle maree

Si parla molto sulla possibilità di ottenere energia dalle maree o dalle correnti marine. In effetti le correnti marine sarebbero una soluzione teoricamente intelligente, fosse solo per la loro continuità, qualità in cui non brillano le principali energie rinnovabili note (vento e soprattutto sole).

Per le maree qualcosa è già stato fatto e ci sono diversi progetti. Gli impianti che sfruttano questa fonte di energia sono ancora pochi: il più noto è in Francia, 240 Mw installati in cui il cui costo dell'energia si attesterebbe sui 18 centesimi di Euro al Kw: per le energie rinnovabili, in cui questo valore è ancora molto caro, si tratta di un risultato eccezionale. Situato sull'estuario del fiume Rance, accanto alla nota cittadina bretone di Saint Malo, sfrutta l'energia di una delle zone più famose per le maree, lungo la Manica, dal lontano 1966 e produce 16 miliardi di kilowattora all'anno.
Ho delle notizie su una piccola turbina costruita nel Mar Bianco, ispirata alla centrale francese, che però, almeno negli anni 60 e 70, ha funzionato saltuariamente e, siccome ha bloccato gli scambi fra una insenatura ed il  mare aperto, ha provocato gravi danni ambientali. 

La ricerca si è rivolta soprattutto a zone caratterizzate da forti maree che hanno appunto una certa regolarità di flusso e consentono dunque una migliore prevedibilità sulla quantità di energia prodotta. Il target più interessante sono dei golfi delimitati da canali lungo i quali i moti mareali convogliano grandi quantità di acqua che scorre quindi a velocità interessanti.
Rispetto al modello francese (e a quello russo), la concezione degli impianti di questo tipo è molto cambiata: se a Saint Malo le turbine sono collocati su un ponte, nei nuovi progetti verrebbero poste sul fondo dei canali. Purtroppo siamo al limite delle tecnologie attualmente disponibili: ovviamente i luoghi ideali per impiantarle sono tratti di mare in cui le correnti mareali sono veloci, un ambiente però completamente diverso a quello ideale per lavorare.

Troviamo una turbina di questo tipo ad Annapolis, lungo la costa atlantica del Canada. L'impianto, gestito dalla Nova Scotia Power (una compagnia molto attiva nelle energie rinnovabili) ha fatto seguito ad una piccola installazione sperimentale da 20 MW costruita negli anni 80 ed ha una potenza installata di 1 Mw. Posizionata nel novembre 2009, attualmente risulta ferma per un problema ancora non perfettamente individuato, la cui ipotesi più probabile pare un danneggiamento del rotore.


Dall'altra parte del continente, il Puget Sound, il grande golfo della costa pacifica nordamericana al confine fra gli USA e il Canada, con i suoi tanti stretti che lo collegano all'oceano Pacifico, è interessato da diversi progetti in materia.
Una compagnia elettrica, la Tacoma Power, ha studiato negli anni passati un sistema che di energia ne produrrebbe eccome, però a causa dei limiti tecnologici l'impianto risultava attuale antieconomico e difficilmente fattibile. In effetti questa ed altre società avevano chiesto delle concessioni per la costruzione di impianti simili, concessioni che però sono per la maggior parte scadute senza avere un seguito.

Quindi allo stato attuale ci sono molte idee ma poche realizzazioni concrete. Inoltre, se 40 anni fa l'ambiente non era molto tenuto in considerazione, attualmente la situazione è per fortuna cambiata.

Il Puget Sound è un modello importante da questo punto di vista: lungo la costa canadese sono in corso ampi programmi di ripopolamento che hanno oggetto diverse specie considerate “minacciate” da estinzione, come l'ormai raro Salmone Chinook. Altra questione riguarda gli eventuali effetti sulla dinamica e sulle popolazioni di cetacei locali che nella zona si stanno riprendendo bene (almeno le specie sopravvissute!) dalla strage degli ultimi secoli (lì i giapponesi non arrivano): in particolare ci si domanda quanto le emissioni acustiche possono interferire con gli animali e la loro capacità (e necessità) di udire i suoni (in altre parole: le turbine possono provocare un rumore di fondo disturbante per i cetacei?). Al di là delle balena che comunicano a distanza tramite suoni (e quindi le turbine potrebbero ostacolarne l'ascolto) destano preoccupazione soprattutto le possibili ripercusioni per i cetacei dotati di ecolocazione: la ricerca in particolare si focalizza sui ripetuti passaggi di alcuni branchi di orche.

Dopo un forte interesse fino a qualche anno fa, attualmente la situazione sembrerebbe molto più calma: la produzione di studi in materia sul Puget Sound, intensa tra il 2002 e il 2008, oggi lo è molto meno. Apparentemente, quindi, tra il fiasco della Tacoma Power e le obiezioni dal punto di vista ambientale, gli operatori si sarebbero scoraggiati. Invece forse siamo ad una svolta: la Marina degli Stati Uniti vorrebbe installare un sistema del genere per l'alimentazione di un sua base che si affaccia giusto sul Puget Sound. Costituito da 6 turbine da 40 kW cadauna, questa centrale – per la quale il Congresso degli USA ha stanziato oltre 5 milioni di dollari – dovrebbe entrare in servizio nel 2012. Un particolare importante per l'ambiente è che il meccanismo di lubrificazione del rotore utilizzerà l'acqua marina e non un lubrificante di sintesi o derivato dal petrolio.
È in fase di avvio anche l'installazione di un secondo sito, civile e non militare, ad opera dello Snohomish County Public Utility District. Costituito da due rotori alti una quindicina di metri che ospitano ciascuno una turbina da 600 Kw è quindi più simile nella concezione a quello della Nuova Scozia (anche il fornitore delle turbine è lo stesso, la Openhydro.

Entrambe le centrali verranno collocate sul fondo di alcuni degli stretti che collegano l'Oceano Pacifico con il Puget Sound, dove le correnti di marea sono piuttosto forti.
Se i progetti avranno un risultato soddisfacente, è possibile che verranno realizzati altri impianti del genere lungo tutta la costa pacifica tra l'Alaska e lo stato di Washington.
L'energia delle maree non potrà certamente da sola risolvere i problemi energetici del pianeta a scala globale, ma in ristrette aree potrebbe davvero fornire una buona soluzione, consentendo autonomia energetica a comunità che si affacciano su tratti di mare adatti allo scopo.

mercoledì 15 dicembre 2010

Roberto Verolini risponde agli anti-evoluzionisti 2

In questa seconda (e per adesso ultima) parte Roberto Verolini risponde al professor Catalano e a Fabrizio Fratus. Lo ringrazio per i suoi post, che mettono in luce come gli antievoluzionisti ancora non abbiano una teoria scientifica accettabile. Con un avviso per tutti i protagonisti della querelle ( me compreso):, non mettiamola sul personale e atteneniamoci solo alla questione scientifica. Prossimamente posterò un "riassunto ragionato con i link"

RISPOSTA AL PROFESSOR CATALANO:

Riconosco volentieri al professor Catalano il merito di aver indicato punti precisi di confronto senza inopportuni e spiacevoli personalismi. Le mie risposte potranno dunque essere, grazie alla nettezza delle sue argomentazioni, molto dirette e sintetiche:


1. Sì, si hanno numerose evidenze che mostrano come l’ambiente “sia in grado di realizzare un processo di selezione della forma … attraverso un processo cieco per prova ed errore" (vedere sotto per gli aspetti strutturali). Queste evidenze vengono, as esempio, da esperimenti di chimica prebiotica e complessi progressivamente autocatalitici. Altri contributi? Un nome (e provocazione!) tra i tanti: il prof. Sermonti.

2. In merito alla possibilità di formazione di strutture anatomiche complesse (le conchiglie etc.) non penso sia oltremodo importante sapere “se alcune forme fossili del Cambriano presentano la stessa spirale dei molluschi ancora oggi viventi" ma se si possono effettivamente realizzare, o meno, per via immanente. Questo era il nodo del discorso. Comunque: sulla differenza o meno delle forme non ne sa nulla l’evoluzionista? Forse. Ma neanche il creazionista. Il problema però è un altro: è quello della possibilità di formarle con il meccanismo proposto dall’evoluzionismo. Ebbene, la teoria dell’evoluzione adottata in ambito scientifico propone indizi a favore di questa possibilità. 

E vorrei rimarcare come questo stato dell’arte non corrisponde all’avere in tasca una teoria assoluta e definitiva; ma solo una teoria, come le altre, da sottoporre continuamente a verifiche. Ora, sia a chi dice "no" che a chi dice "si" io chiedo lumi. Sinora ho significativi e ripetuti indizi per il "" e nessun serio indizio (Popper, dove sei?) – se non... "non riesco a capire come" o apodittici "è impossibile" – per il "no"! Il nostro "non riuscire a capire" non è sinonimo di impossibilità. E il capire o non capire è anche fatto di contesto. Attenzione: in nessuna scienza il non capire ha implicato… invocare enti sovrannaturali o dinamiche divine. Sarebbe la morte della scienza. E poi: nell’esempio della piuma fluttuante alla Forrest Gump che non si presta alle esigenze di una scienza ‘galileiana’ da suffragare con esperimenti riusciti si ricorre a limiti umani di computazione, senza invocare divinità o impossibilità di principio, mentre per l’emersione di forme biologiche sì? Mi sembra molto parziale questo diverso atteggiamento. Il primo è solo un problema di calcolo e non di principio? Non lo si può galileianamente sostenere… dunque: è metafisica? Sia chiaro: non lo sostengo. Ma tant’è! 

E ancora: "diversamente credente” io per sostenere certe dinamiche? Professor Catalano, io non mi sono mai minimamente spacciato per presuntuoso assertore di verità definitive, o quant’altro. Mi reputo umile ricercatore interessato di temi inerenti l’evoluzionismo, i rapporti tra scienza e metafisica, i limiti e i valori di modalità di conoscenza come scienza, filosofia e… a margine, critico valutatore di asserti teologici. La mia è una ricerca personale, nulla più. Solo che cerco di tenere ben distinti gli ambiti e i limiti di ciascuna di quelle modalità. Checché se ne dica, sono da sempre "agnosticamente" aperto al dialogo e all’ascolto delle tesi di tutti i miei interlocutori: la mia presenza agli incontri AISO lo dimostra. Non mi si perorino, dunque, come alternativa all’odierna conoscenza scientifica, ipotesi cosmogoniche cosmologiche che potevano andar bene per antiche popolazioni di agricoltori/allevatori del medio oriente. La vera scienza vive di critiche: ebbene, lo stesso vale per le posizioni contrapposte. Dunque: Vino nuovo in otri nuovi. Sto sostenendo questo, null’altro.

In merito agli "avatar intenzionali", no, la selezione naturale non è un agente intenzionale, ma manifestazione di una realtà naturale immanente profondamente strutturata, complessa, vincolata a fattori dimensionali, fisico - chimici, ecologici, storici e quant’altro – ed è a questa realtà e su questa realtà (pre-biotico / genetica) che si rifanno i genomi e su cui poggia l’emersione dei fattori biologici e del fenomeno – non agente intenzionale, ripeto – della selezione naturale. E quella realtà presenta una sua intrinseca struttura informazionale. Vorrei ribadirle, semmai ce ne fosse bisogno, la radicalità della mia posizione agnostica: io non mi pronuncio mai sull’eventuale causa ontologica prima della realtà naturale come fa di solito il credente o l’ateo: ignoro questo aspetto e lo ammetto. Ma non ho bisogno di tali affermazioni visto che le alterne opzioni che prendo filosoficamente in considerazione risultano nella prassi assolutamente affrancate dai contenuti delle congetture proposte per cercare di rispondere a tale quesito metafisico. Un quesito che almeno deve essere rimandato a quel che dovrebbe aver causato la realtà naturale, ovvero al Big Bang – e se fosse possibile – alla sua causa. (N.B. sa di certo che recenti ricerche su fluttuazioni cosmiche primordiali sembrano indebolire l’uguaglianza Big Bang=creazione tanto invalsa tra credenti… per la serie… la scienza sorprende sempre per il suo immanente e pervasivo essere epistemologicamente in fieri!)

Vede, comprendo come lei non abbia avuto l’opportunità di conoscere con sufficiente dettaglio le mie posizioni: questo spiega molte cose. Mi permetta: lei sì che ha replicato alle mie affermazioni. Le riconosco questa sua correttezza!


RISPOSTA A FABRIZIO FRATUS

Ho lasciato per ultima la risposta a Fabrizio perché, con lui avevo pensato di aver fondato un simpatico e rispettoso rapporto personale. Ma, caro Fabrizio (ti do del tu, se permetti) sono rimastoamareggiato dal tenore sconveniente delle tue risposte. Proprio mentre stavo preparando questa risposta ho letto dei tuoi post  sul blog "la destra"  e "il talebano", in cui hai reiterato un atteggiamento… decisamente sconcertante.

In soldoni: ho accettato gli inviti dell’AISO e spero di aver onorato l’ospitalità con un comportamento di rispetto – pur se fermo nei miei distinguo – nello spirito di un corretto confronto.
No, non voglio “… entrare a far parte del circuito della “nomenclatura evoluzionista”… ", "ottenere riconoscimenti in gotha evoluzionistici, pubblicità o notorietà", come si è insinuato. Non ho il minimo intento di essere parte di questi circuiti: sono un semplice studioso che cerca di capire le cose per se stesso. Se però questo è quel che si sospetta posso declinare ogni ulteriore invito e tranquillamente andare per la mia strada: ciò c’è alcun problema. Poi. Le uniche considerazioni personali che mi son permesso con te sono state limitate, bonariamente, alla tua sola… passione calcistica. Dunque mi si dovrebbe spiegare dove e perché mi sia comportato da "saccente, arrogante e presuntuoso". Io affronto confronti personali in modo diretto ma discreto: se ho da dirti qualcosa di personale mando una mail. No, mi è sembrato molto garbato un certo tuo tono.

Cos’è per te saccenteria, arroganza e presunzione, difendere in modo innanzi tutto personale, netto e con ragionamenti posizioni differenti da quelle dell’AISO, e in generale degli anti-evoluzionisti? In risposta alle mie affermazioni hai indicato le opinioni personali di gente come Hack, Formenti etc., affermato che io non abbia "… compreso bene cosa sostengono gli anti-evoluzionisti e i creazionisti". 
Che c’entrano la Hack e il Formenti, che secondo te sono veri anticreazionisti, con quanto io ho detto e scritto? Ho esposto le mie idee e rispondo di quel che io ho detto. Si valutino i contenuti delle mie affermazioni, come ha fatto il prof. Catalano. Se non garbano, non è un mio problema. 
Le mie argomentazioni sono “pretestuose e decisamente poco veritiere"? Quali, dove e perché, di grazia? Evochi dogmi materialisti e improbabili sillogismi evoluzionismo/ateismo: che c’entrano con le mie tesi? Citi Marco Ferrari, il quale avrebbe voluto evitare figuracce a me e Piombino scrivendo che “non siamo propriamente degli evoluzionisti"? Ringrazio il sig. Ferrari, ma… non serve. E perché poi? Chi è ‘vero evoluzionista’? Chi propone la canonica teoria darwiniana, penso. Allora, io e Aldo – da quel che ho sentito – siamo perfetti evoluzionisti!

NOTA DEL REDATTORE: Marco ha successivamente spiegato cosa voleva dire: non abbiamo specifici studi universitari in biologia evoluzionistica, solo quello e temeva delle "trappole".

Ebbene: io mi limito a questo: all’aspetto concreto. Non speculo sull’evoluzionismo – sia pro che contro – ai sensi di personali posizioni ideologiche pregresse o quanto meno faziose, come fai nel mentre scrivi (permetti? affermazione filosoficamente sballata) che il "neodarwinismo è una religione su cui si fonda il pensiero ateo”! Signori, atteniamoci ai soli fatti e contenuti! Il neodarwinismo è ateo? Così come sono atee, allora, E=mc2 o F=ma? Ma scherziamo? Caro Fabrizio: a Roma eri dei nostri quando ho chiarito l’inconsistenza epistemologica dell’associazione evoluzionismo = ateismo?

La scienza non è atea: è epistemologicamente e intrinsecamente agnostica (a-gno-sti-ca! Sapresti indicare teorie scientifiche atee? O cattoliche… o quant’altro?
L’ateismo poi è filosoficamente disarticolato dall’evoluzionismo e storicamente anteriore. Ovvio poi che l’evoluzionismo possa corroborare un certo ateismo, che indico come reattivo, ma non ne è la causa: questa è una banale farlucca! L’evoluzionismo, di per sé agnostico, è in contrasto con aspetti formali di specifiche credenze religiose e di conseguenza, confutando tali contenuti, induce il loro ripudio. Tutto qui.
In sintesi, prima di sciorinare accuse di saccenteria, arroganza etc., prego attenersi a quel che sostiene l’interlocutore: e ho proposto cose ben diverse e circostanziate nei confronti di tali boutade e di certe repliche. Capisco: il calcio è per molti… ma non per tutti.
Sottolineo poi il passo in cui scrivi come “Roberto Verolini, in un passaggio del suo doppio post, sostiene che anti-evoluzionisti e creazionisti sono in confusione… ohi ohi ohi professor Verolini, ricordiamo che l’anno scorso, durante il contraddittorio a Milano, il professor Ferdinando Catalano ha dovuto mettere ordine alla tua confusione sul concetto di “informazione” spiegando, davanti ad un pubblico di oltre 130 persone, che l’informazione ha sempre necessità di intelligenza". A prescindere dalla mancanza di rispetto del brano; caro Fabrizio, la tua memoria sembra molto selettiva: dimentica quel che non garba? Replicai alle modalità con cui si propose il tema "informazione e entropia" invocando l’autentico significato scientifico di quest’ultima (variazione di spazi di stato controfattuali equiprobabili, etc. e non la vulgata disordine / ordine) che conduce a ben distinte conclusioni. Strano: nessuna traccia mnestica o… rimozione freudiana?
E sono stato saccente, arrogante e presuntuoso nell’affermare che il creazionismo non è scienza (fatto ammesso anche da Catalano!) e che l’evoluzionismo, ricorrendo a soli aspetti immanenti è l’unica ipotesi oggi conosciuta capace di assumere lo status epistemologico di teoria scientifica? Ma è la realtà! Cosa posso farci? Oppure: lo sono stato nel mentre riconosco che non tutti gli eventi e fenomeni biologici sono descritti dall’odierna teoria dell’evoluzione e che sono – io, come quegli evoluzionisti che non sono caduti nell’errore del supportare le personali convinzioni metafisiche con questa o quella teoria scientifica – sempre ben disposto ad ammettere integrazioni, revisioni? (sempre epistemologicamente valide però! Ovvero, fondate su enti, fatti e fenomeni immanenti e non… su improbabili interventi sovrannaturali tra l’altro… teologicamente goffi e niente affatto necessari!)

E infine: sono forse saccente, arrogante e presuntuoso nel riferirmi alla "proposta indecente" (è solo ironia eh!) di Harun Yahya, su cui ci si è arenati sul mio conto in banca senza notare come indicassi l’assoluta infondatezza epistemologica della stessa proposta di tale autore? Non nascondiamoci dietro le mie disponibilità di denaro quando non si sa cosa rispondere… Il solito errore: si guarda la mano che indica la Luna e non quest’ultima! Il fatto è che non esiste alcun dato empirico capace di provare in modo definitivo una teoria scientifica; non solo l’evoluzionismo: qualsiasi teoria. Questo è noto oramai da decenni alla filosofia della scienza! Quel che ho voluto indicare con tale provocazione è poi il secondo, fondamentale errore concettuale – ergo filosofico – in cui è caduto Harun Yahya: errore celato nei mantra che ripete in quasi ogni pagina del suo mastodontico libro. Libro che ho letto, caro mio, perché io leggo i lavori dei miei interlocutori! Allora leggilo e scoprilo. Poi prendine atto e esponi, se vuoi, le tue osservazioni.
Concludo: non ho intenzione di calarmi in defatiganti contenziosi. Non mi interessa contrapporre opinioni a opinioni, come disse Nietzsche: voglio solo cercare di sapere se ho torto o ragione sulle cose. Onestamente, con rispetto reciproco e nel reciproco aiuto. Altrimenti la cosa finisce qui. Un saluto a tutti voi…

martedì 14 dicembre 2010

Roberto Verolini risponde agli anti-evoluzionisti 1

Ho ospitato volentieri l'amico Verolini su Scienzeedintorni e devo dire che a questa maniera stiamo un pò proseguendo il dibattito romano del 22 ottobre. Ai suoi post sono seguite delle risposte da parte di Bertolini, Catalano e Fratus  a cui Roberto vuole a sua volta rispondere. Pertanto con vivissimo piacere lo ospito ancora una volta.

A seguito dell’incontro AISO di Roma del 22-10-2010 ho avuto la possibilità di pubblicare una serie di articoli sul Blog Scienzeedintorni curato da Aldo Piombino, in cui ho sintetizzato il mio intervento. In sintesi, se si vuol davvero impostare un confronto serio e equipollente sull’evoluzionismo si devono trattare tutte le ipotesi alternative eventualmente in lizza sullo stesso status epistemologico.
Ciò comporta inevitabilmente, ai fini di un corretto confronto, che le ipotesi alternative – qualora vengano proposte – debbano essere sviscerate, criticate e valutate ricorrendo a un comune denominatore: essere o meno, ai sensi dell’odierna epistemologia, di status scientifico. Denominatore che, necessariamente, deve anche prevedere una valutazione dialettica, logico filosofica – qualora non si possa ricorrere a evidenze eminentemente scientifiche – ma non ideologico dogmatica!
Ma questo comporta che anche le congetture inerenti a ipotesi metafisiche di creazione possano sottostare ad analoghe critiche, e non accettate fideisticamente per mera congiuntura confessionale. 

Dunque ho eccepito che, a prescindere dall’enorme tasso di intrinseca incoerenza delle ipotesi solitamente avanzate dagli creazionisti/anti evoluzionisti (origine dell’uomo e spiegazioni inerenti le dinamiche naturali etc.), desunte più dalla tradizione esegetica cattolica – palesemente contingente e problematica – che da oggettivi riscontri, tali tesi non possono essere affatto poste quali canone del pensiero teista, prototipo par excellence per il confronto filosofico con le posizioni laiciste

Come si vede non ho minimamente invocato l’evoluzionismo a sostegno o meno delle mie soggettive posizioni filosofiche, di fatto agnostiche, (che, tra l’altro, mi guardo bene dal mettere in campo, ai sensi sia del rispetto della distinzione tra soggettività e ricerca di oggettività!). Ciò ai sensi del riconoscimento dell’autonomia e terzietà della sfera dell’indagine scientifica vera e propria, dalla quale cerco di trarre, onestamente, senza alcun malcelato e strumentale intento revisionista o sincretista, tutte le implicazioni procedenti dal paradigma neodarwiniano canonico (o evoluzionista) – e non solo quelle eventualmente adattabili ai miei personali valori metafisici. In altri termini: sono nella condizione di valutare l’evoluzionismo essenzialmente per i suoi contenuti, e non in funzione dell’essere ateo o credente. Per questo e solo per questo riconosco all’evoluzionismo lo status di unica teoria scientificamente proponibile ad oggi disponibile. Di conseguenza la accetto in toto.

Confidare o meno nella teoria darwiniana non è dunque legato alle mie (personalissime) idee in merito a questo punto, ma risulta mera (e serena) valutazione epistemologica, assolutamente non viziata da esigenze ideologiche. Ebbene, mi compiaccio di poter esibire questa assoluta assenza di tali istanze soggettive nelle mie tesi, che concordo possano risultare originali.

In risposta ai miei articoletti gentilmente ospitati su Scienzeedintorni sono dunque comparsi sul sito dell’AISO tre repliche dei sig. Fratus, Catalano e Bertolini.
Essendo queste repliche citate in commenti del blog di Aldo, mi permetto di rispondere da questo sito.
A tali risposte desidero replicare, senza imbarcarmi in defatiganti infruttuosi contenziosi che, in considerazione di quel che si intuisce dal tenore di certe repliche, si prospettano decisamente infruttuosi

Prima di tutto, una considerazione personale: recita un famoso motto: “Molti nemici (in questo caso interlocutori) molto onore!”. Per l’appunto, sono onorato di aver suscitato le repliche di ben tre interlocutori! Un’ultima considerazione ‘personale’: diverso è stato il tono delle tre risposte: a mio parere, mi è sembrata assai esacerbata – e francamente sgradevole – quella di Maurizio Fratus. Risponderò lasciando in secondo piano riferimenti a questo aspetto – che non interessano il lettore.
Replicherò solo ai temi più salienti; non è possibile riportare in un solo post l’oceanica mole di eccezioni che possono derivare dalle affermazione dei tre autori. Sarà sufficiente, in questo rapido scambio di battute, indicare il senso generale delle critiche. Per chi voglia approfondire gli argomenti… ci sono traboccanti bibliografie internazionali scientifiche e forensi (e non solo… qualche scaffale di libreria!)


 1. RISPOSTA ALL'INGEGNER BERTOLINI
L’ing. Bertolini parla della mia "non comprensione" del meccanismo evolutivo proposto dai creazionisti. Strano! Ho chiesto di conoscere il meccanismo creazionistico/evolutivo da contrapporre a quello proposto da Darwin. Ebbene: sono (siamo, dato che mi colloco a fianco degli scienziati evoluzionisti) in attesa dell’illustrazione di tale alternativa, che deve ovviamente prevedere uno strumento di emersione delle strutture genetiche, di trasmissione e quant’altro occorre per collocarsi sullo stesso piano epistemologico dell’evoluzionismo. Ricordo che meccanismi e dinamiche – per essere annoverate tra le teorie ‘scientifiche’ debbono prevedere (e siamo a monte della fase di verifica sperimentale) enti e dinamiche – attenzione qui! – perfettamente e esclusivamente IM-MA-NEN-TI! Ebbene: quale sarebbe questa proposta? Chi l’avrebbe formulata? Dov’è? Signori, non ce n’è punto… Ora: allorquando i creazionisti produrranno suddetta alternativa potranno essere presi in considerazione in ambito epistemologico scientifico.
Malgrado l’assenza di questo contenuto la discussione potrà essere condotta sul piano filosofico e congetturale – sempre lecito ma tale! – da cui, come si può verificare, non mi sottraggo minimamente. Ora, in questa eventualità, si sappia che le possibili osservazioni e critiche al creazionismo sono ben maggiori di quelle provenienti dal versante scientifico epistemologico. Per quanto mi riguarda ho fatto la mia proposta – nota al Bertolini. Ma non emerge a tutt’oggi alcuna valutazione o eccezione. Passiamo oltre.

Alla mia richiesta "perché Homo erectus e H. habilis", volta a significare l’assurdità non tanto scientifica quanto ‘teologica’ (tout court) della sedicente ‘creazione direttanon di singole specie ma di “famiglie e generi da parte del Creatore", Bertolini replica che 'l’H. habilis non è più considerato un taxon valido’. Poi esprime considerazioni sull’altra mia provocazione – ma non si intuiva la chiave ironica? – inerente alle indignitose razzie nelle gonadi di obnubilati primati che il creatore sembrerebbe chiamato a fare nelle proposte creazionistiche di eventi creativi a livelli tassonomici metaspecifici.
Per quanto riguarda l’inesistenza degli ominidi di cui sopra, ciò è tutto da provare, visto che oltre i due autori bibliografati dal Bertolini esistono centinaia di paleontologi (altrettanto evoluzionisti… o forse più?) che sostengono elementi… diciamo (con un eufemismo) in leggera controtendenza! Ma non è questo il problema: il fatto è che la risposta verte solo su elementi semantici, essendo riferita a concetti che risultano esser solo artificiose categorie cognitive.

Il genere Homo ha una pletora di forme progressivamente e liberamente distinte che sono solo indicate dalle nomenclature binomie per meri fini cladistico/tassonomici. Da tempo è acclarato che il classico concetto di "specie" è invocato solo per comprensibilissime esigenze classificatorie; in altre parole, le sequenze di autentiche forme naturali sono costrette in classi discrete, stante il ricorso a una categoria aristotelica che in realtà non ha necessario riscontro in natura nella sua assolutistica accezione logica! (Esempio: le "specie anello"). Il dicotomico, aristotelico concetto di specie è intrinsecamente contraddittorio e deve assumere un’accezione sfumata quando lo si applica alle autentiche forme naturali – e si noti bene che quest’ultimo aspetto è un fatto empirico, non un contenuto teorico dell’evoluzionismo!

Questa intrinseca contraddizione logico semantica è stata brillantemente spiegata da autori come Dennett… e oramai pacificamente acquisita – sotto il profilo epistemologico – da ogni studioso… del ramo. In altre parole: possiamo sì indicare l’"Ultimo re di Roma" o il "primo uomo sulla Luna"… ma non possiamo parlare allo stesso modo del “primo uomo" o dell' “ultimo ominide”! (N.B. Fatto debitamente illustrato nel 2009)
Non si gradisce dunque Homo erectus, o Homo habilis? Bene. Cosa si vuol scegliere? Abbiamo Homo antecessor, Homo ergaster, Homo floresiensis, Homo heidelbergensis, Homo neanderthalensis, Homo rudolfensis. Cui prodest dunque questa allegra compagnia di Homo sapiens sapiens? Come si vede il problema – ripeto: anche e soprattutto teologico – permane in tutto il suo risalto!

Aggiunge poi Bertolini: “Tutti i fossili dei cosiddetti ominidi (una descrizione molto vaga) si possono considerare: varie specie di scimmie o altrimenti pienamente umani. Non esistono diverse specie d’uomo, ma esiste unicamente la razza umana". A parte il fatto che esiste al più la specie umana, le razze umane non esistono, tale affermazione deve essere dimostrata, grazie. E a tutt’oggi questo non è dato. Anzi, tutto concorre a delineare (scientificamente) qualcosa di molto più articolato e differente. È un’opinione lecita, nulla da eccepire, ma che risente clamorosamente di precise influenze fideistiche. Ma… è soltanto ‘un’opinione’, tra le tante, che, in particolare, si palesa del tutto anacronistica, ridondante, contingente e superflua, in relazione ai contenuti di concezione alternative – N.B. non materialistiche! – quale quella del sottoscritto assolutamente non gravata da tali risibili esigenze formali.

Un secondo punto della replica del Bertolini è quello sull’interpretazione dei dati molecolari in ottica evolutiva, che si etichetta come "favola" a cui io avrei… abboccato. Beh… l’analisi dei suddetti dati molecolari esprime oggettivi e coerenti fenomeni di coalescenza molecolare che a tutt’oggi sono spiegati solo ed esclusivamente dalla teoria evoluzionistica. Ora, ai sensi del sano metodo scientifico è a carico della controparte il proporre un altro meccanismo interpretativo e confutare quelle implicazioni. Scienza esige scienza. Il fatto poi che si voglia attendere – a confutazione dell’evoluzionismo – la necessità di una stretta analogia tra differenziamento anatomico e molecolare deriva dal disconoscere il vero significato esplicativo dell’analisi molecolare interspecifica: ad esempio, l’ambiente interno in cui agiscono le dinamiche evo/devo non corrisponde affatto alle condizioni macroscopico fenotipiche ed ecologiche a cui gli organismi, nel loro complesso anatomico ed etologico, debbono far fronte.

Ultima osservazione. In merito alla mia obiezione – da smentire in modo filosofico/scientifico oggettivo, e non con asserti fideistici – in relazione ai "difetti strutturali di organi e reti metaboliche” Bertolini replica che “i creazionisti sostengono che Dio creò l’uomo e gli altri animali perfetti”. E che il sottoscritto avrebbe dovuto “…opportunamente svolgere una rapida e semplice lettura della Genesi scoprendo che l’imperfezione subentrò nel creato (dopo la disobbedienza dell’uomo, chiamato peccato), ecco allora svilupparsi la degenerazione del genoma, l’incremento delle mutazioni (che risultano in una perdita d’informazione genetica) e cosi le gravi patologie dei esseri viventi". 
 Davanti a queste affermazioni – a cui replico en passant – e visto quanto scritto da Fratus devo concludere che siano quanto meno singolari le accuse al sottoscritto di non tener conto delle opinioni dei creazionisti, quando entrambi hanno replicato senza minimamente tenere in conto le mie tesi e, ancor più le produzioni che entrambi hanno avuto da tempo in dono (a questo punto spero siano state accolte come tali!).

L’imperfezione subentrata a causa del peccato originale è innanzi tutto un mero e con-tin-gen-te asserto fideistico – tra parentesi, fortemente dibattuto in teologia. Prescindendo che questa concezione è – of course – totalmente aliena a qualsiasi riferimento immanente e ancor più scientifico e storico (come, dove, quando sarebbe occorso tale fatto, in cosa sarebbe consistito, come si sarebbe diffuso nell’ecumene umana, come avrebbe potuto alterare aspetti termodinamici, genetici, biologici etc.) e evidenzia clamorosamente il fatto che si siano quanto meno ignorate le mie tesi incentrate proprio su questo punto!

Ora, ai sensi di un garbato e corretto dialogo, dove si dovrebbe obiettare all’interlocutore solo per le sue affermazioni e non per generiche e sedicenti attribuzioni ad asserti di terzi, giro all’ing. Bertolini la frase conclusiva del suo stesso intervento, con due sole sostituzioni: "Bertolini" per "Verolini" e "creazionisti" per "evoluzionisti": “Mi auguro che Bertolini possa prendersi l’impegno di studiare e approfondire quello che veramente viene sostenuto da Verolini senza ricorrere ai soliti avversari di comodo che vengono inventati opportunamente. Sarebbe positivo se i creazionisti studiassero anche la loro ipotesi con gli occhi aperti cercando di liberarsi da pregiudizi, riuscendo, forse, a vedere tutti gli errori della loro ipotesi".

Il Canada e le sabbie bituminose: come essere il secondo paese al mondo per le riserve di petrolio avendo solo giacimenti non convenzionali

La CNN in un servizio di pochi giorni fa ha evidenziato come la richiesta mondiale di oro nero sia arrivata a vertici prima di oggi non toccati. La “colpa” è delle nuove economie (Cina ed India) che stanno “tirando” sempre di più. Non si parla però di raggiungere le vette del 2008 in quanto a prezzo del greggio, a causa di una produzione piuttosto ampia dovuta agli investimenti effettuati durante la “bolla” di quegli anni.
Oggi grazie alle ricerche offshore sempre nuovi Paesi si stanno affacciando alla ribalta, dal Brasile alla Cambogia.

Qualche tempo fa avevo parlato dei “gas shales”, come fonte di metano: stanno dando esiti molto soddisfacenti per le tasche di compagnie estrattive e proprietari di terreni sotto i quali si trovano queste rocce e anche a diversi enti locali americani grazie alle royalties. Non pare che esiti altrettanto soddisfacenti (e neanche “sub-ottimali”, termine oggi di moda) vi siano nel campo delle “conseguenze ambientali”. La produzione è tale che attualmente gli analisti sostengono per il gas un trend dei prezzi completamente diverso rispetto al petrolio: potrebbero addirittura diminuire nel corso del 2011
Oggi mi occupo di un altro tipo di giacimenti, le “oil sands” (sabbie bituminose): sono sabbie (talvolta miste ad argille) impregnate di acque e bitume che vi è contenuto in percentuali che vanno dal 10 al 15% in peso. Questi sedimenti, se molto compatti, erano usati una volta per rivestire con materiale catramoso tetti e pavimenti. Oggi sono una delle più importanti fonti di petrolio. Per ottenerlo da questi sedimenti occorre preparare il bitume a tutte le operazioni che in una raffineria lo trasformeranno alla fine in petrolio, gasolio e quant'altro.

Ci sono due modi per estrarre il bitume – e quindi il petrolio – dalle sabbie che lo contengono in base alla posizione:
- lo sfruttamento può avvenire direttamente in superficie e in maniera molto semplice, sbancando il sedimento e portandolo agli impianti di trasformazione
- se si deve andare in profondità invece la cosa è più complessa: occorre iniettare acqua calda per rendere il bitume più fluido e permettergli la risalita

In generale per poter trasportare il bitume in oleodotti fino alle raffinerie è necessario separarlo dalla sabbia, usando acqua calda e soda caustica, mentre per aumentarne la liquidità in nodo da renderlo trasportabile con oleodotti vengono aggiunti come diluenti altri idrocarburi
Giacimenti simili sono presenti in Asia e Sudamerica, ma lo stato canadese dell'Alberta è il leader indiscusso del settore. Il sito del governo di questo stato pubblicizza le “Athabaska Oil Sands” come "la seconda fonte di petrolio in termini quantitativi al mondo dopo l'Arabia Saudita”, come si vede nel grafico qui accanto. Il che non sarebbe proprio poco. Il giacimento segue il corso del fiume Athabaska il quale erodendo i sedimenti sovrastanti ne ha messo in evidenza una parte. Per rendersi conto dell'enormità di questo giacimento, si estende per 140.000 kilometri quadrati, pari a quasi metà Italia!


Sono una formazione di età mesozoica (cretaceo inferiore). Ricoprono una superficie erosa calcarea del Devoniano e hanno uno spessore compreso tra 30 e 40 metri e possono affiorare ma anche giacere ad una profondità superiore ai 500 metri. L'origine del bitume è ancora oscura: alcuni Autori pensano che si sia formato in zona, altri che sia migrato proveniendo da zone in sollevamento lungo le Montagne Rocciose.

Lo sfruttamento delle Athabaska Sands è iniziato alla fine degi anni '70 ed è una questione difficile dal punto di vista ambientale: oltre alle emissioni di CO2 (nonostante che il quantitativo per barile sia diminuito del 45% rispetto a 20 anni fa) e un consumo di acqua pari a circa 4 volte quello del bitume estratto, cavare il sedimento significa rimuover alberi, cespugli, e suolo. Per fortuna degli abitanti il Canada non è la Nigeria, dove le perdite di petrolio ammorbano l'ambiente nel menefreghismo della classe dirigente: lo Stato dell'Alberta pretende di riutilizzare quanto tolto, per ricostruire l'ambiente, una volta cessata l'attività mineraria di un certo appezzamento di terreno. Però ripulire completamente non è semplice. Alcuni gruppi ambientalisti si lamentano molto a proposito dello stato delle falde acquifere.

E questo è un problema molto grave perchè purtroppo le sabbie sono i principali sedimenti in cui possiamo trovare acque sotterranee.

D'altro canto l'acqua dell'Athabaska è preziosa per lo sfruttamento dei giacimenti, ma quella che viene usata per i processi di separazione del bitume è una vera e propria bomba ecologica a causa dei composti tossici che contiene: quindi non può assolutamente essere reimmessa nel fiume nè ci si può permettere di disperderla nell'ambiente. La soluzione attuale è lo stoccaggio in stagni artificiali dove attende di poter essere riutilizzata qualche anno più tardi. Il sistema garantisce attualmente un prelievo molto inferiore di acqua dal fiume rispetto a prima e dovrebbe prevenire lo smaltimento di queste acque all'esterno. Purtroppo tali stagni sono un pericolo per la selvaggina, in particolare per gli uccelli migratori, che quando se ne abbevera spesso ne paga gravi conseguenze.
Per il 2016 è prevista la chiusura del ciclo in modo che venga sempre sfruttata la stessa acqua e sono in corso forti investimenti per ridurre al minimo l'uso del prezioso liquido.

La forte questione ambientale deve misurarsi con alcuni problemi fondamentali per i quali non è possibile non sfruttare le Athabaska Sands:
- per l'Alberta sono una parte fondamentale dell'economia: quasi un sesto della forza lavoro è impegnata nel settore energetico.
- la presenza di un giacimento così significativo praticamente “in casa” e quindi non in un'area politicamente a rischio ha galvanizzato notevolmente i vicini Stati Uniti al punto tale che sono pronti i progetti per un oleodotto che colleghi l'Alberta con il Midwest
- gli States grazie a questa risorsa riescono a parare i problemi che incontra la ricerca di petrolio offshore dopo la catastrofe del Golfo del Messico
- anche negli USA gli analisti prevedono decine di migliaia di posti di lavoro connessi al settore

Date queste premesse è un po' difficile pensare che motivi ambientali riescano a bloccare lo sfruttamento di queste sabbie. Però è possibile che tenendo molto d'occhio l'inquinamento, l'impatto ambientale della faccenda venga attutito

giovedì 9 dicembre 2010

I mammiferi del Madagascar e la loro origine

Il 5% di tutte le specie classificate sul nostro pianeta è endemico del Madagascar: una su 20. Niente male per una terra estesa poco meno di due volte l'Italia. Questo rende l'idea di cosa voglia dire l'isolamento di questo microcontinente a largo del Mozambico, le cui prime avvisaglie datano a ben 180 milioni di anni fa quando si instaurarono le prime frattura fra Africa da una parte e il Gondwana meridionale. Il Madagascar, che si era separato definitivamente dall'Africa nel Cretaceo Inferiore rimase più o meno solidale con l'India fino al cretaceo superiore. Da allora è isolato da qualsiasi altra terra emersa.
Fra le specie endemiche troviamo i rappresentanti di 4 ordini di mammiferi placentati Primati (Lemuri, Roditori, Tenrecidae e Carnivori. Per capire il grado di parentela reciproca all'interno dei gruppi e chi siano i loro cugini più prossimi nella terraferma, gli studi genetici sono l'unica soluzione in quanto non sono ancora stati trovati nell'isola fossili di mammiferi terziari.
Ce ne sono di un po' più antichi, del tardo cretaceo: analogamente a Sudamerica, Africa ed India si tratta di Marsupiali e di due sottoclassi mammaliane estinte: Multitubercolati e Gondwanateri. Ad oggi non è dato sapere fino a quando i discendenti di questi mammiferi primitivi siano sopravvissuti nello zatterone malgascio.
La mancanza di validi competitori ha permesso a questi animali una eccezionale diversificazione in forme, dimensioni e abitudini al punto che gli studi sulla morfologia non sono riusciti a fornire un quadro preciso.
A questo proposito va fatto un appunto importante: parlando di una radiazione evolutiva siamo portati a vedere un meccanismo semplice in cui una popolazione originaria si diversifica rapidamente occupando tutto il nuovo territorio. In realtà le cose potrebbero essere andate in modo diverso: per esempio in una fase iniziale la popolazione potrebbe non essersi spostata molto dal punto di arrivo, muovendosi solo dopo un certo lasso di tempo; oppure la distribuzione può essere la conseguenza di più radiazioni secondarie partite da diversi punti dell'area, che magari hanno comportato la scomparsa di specie appartenenti alle radiazioni precedenti.

La genetica ha risolto molte delle questioni sul tappeto. Per Carnivori, Tenrec e Roditori c'è la conferma che appartengono a linee monofiletiche e sono stati bene identificati i loro cugini più vicini che abitano l'Africa. Il caso dei Lemuri è invece un po' diverso, in quanto gli esponenti di questo gruppo, una volta diffusi in tutta l'Eurasia e l'Africa sono sopravvissuti solo nel Madagascar. Tutti questi animali dovrebbero discendere da antenati di piccole dimensioni.
I Carnivori, come il Fossa, sono imparentati con gli Herpestidi, cioè le Manguste e i Suricati. Fra loro ci sono forme molto originali, come Eupleres goudotii, che si nutre di vermi, larve o lumache.
I Tenrec, generalmente insettivori, hanno sviluppato forme simili a ricci, talpe e toporagni. la genetica è riuscita a classificarli come un sister group dei tenrecidae africani come i Micropotamogale.
I roditori terrestri assomigliano a topolini, arvicole e conigli, mentre ci sono roditori piuttosto particolari, come Brachytarsomys, una sorta di topo saltatore. Sono ben radicati nei Muridi africani.

Altri mammiferi malgasci sono Plesiorycteropus, di incertissima collocazione, e degli ippopotami. Sono scomparsi da poche centinaia di anni e si attribuisce la colpa alle popolazioni locali, visto che quel periodo ha coinciso con una vera estinzione di massa delle faune più grandi dell'isola, compresi uccelli non volatori simili agli struzzi e ai moa.

Un gruppo internazionale che si è occupato del problema, in un lavoro del 2005 di cui prima firmataria è la francese Celine Poux. Gli intervalli possibili per l'arrivo nell'isola sono rispettivamente, in milioni di anni fa, 70 – 41  (Cretaceo – Eocene Medio) per i Lemuri, 50 – 20 (Eocene) per i Tenrec, 30 – 15 (Oligocene – Miocene Inferiore) per roditori e carnivori.

I Tenrec possono essere arrivati in Madagascar in epoca abbastanza antica, facendo parte di quei mammiferi, gli Afroteri, che si sono sviluppati in Africa dal Paleocene (fra questi abbiamo Elefanti, Sirenidi e Toporagni). Gli altri gruppi non possono essere arrivati in Africa prima di 39 milioni di anni fa, perchè esponenti di gruppi evolutisi in Eurasia e arrivati in Africa solo quando meno di 40 milioni di anni fa, l'Arabia (e quindi l'Africa – non c'era il Mar Rosso) si è scontrata con l'Eurasia. Il dato è ampiamente corroborato dalle indagini paleontologiche che mostrano proprio 39 milioni di anni fa un brusco cambio delle faune nordafricane.

Quindi la tempistica dell'arrivo di questi gruppi nell'isola è coerente con i dati geologici e paleontologici per tutti tranne che per i Lemuri.
Vediamo quindi con attenzione questo caso. Sono Primati, appartenenti alla famiglia delle Strepsirrhine che attualmente, oltre alle decine di forme malgasce, comprende soltanto le Lorisidae, con il Potta africano e il Lori indiano e le Galagidae, che comprendono i vari Galagoni.
Quello dei Primati è uno degli ordini più antichi di Placentati, dato che lo split tra le Strepsirrhine e gli altri Primati è calcolato a circa 80 milioni di anni fa, ben prima della fine del Cretaceo. Potta, lori e Galagoni probabilmente assomigliano molto ai Primati tardocretacei e paleocenici, piccoli insettivori arboricoli. Le Strepsirrhine erano diffuse in tutta l'Eurasia ma in seguito il raffreddamento climatico ha allontanato tutti i Primati dall'Europa e sono gli unici Primati esistenti oggi in Africa e Asia non appartenenti alle Catarrhine. Quindi le Strepsirrhine, sono praticamente scomparse o quasi tranne che nel Madagascar e in qualche nicchia di Africa ed Asia.

Sempre nel lavoro di Poux et al si legge che la monofileticità dei Lemuri malgasci non è molto evidente se non per la presenza di un “rare genomic change – (RGC)”. Gli RGC sono modificazioni genomiche piuttosto grandi, come la elisione o l'introduzione di una parte piuttosto lunga di una sequenza genetica; chiaramente un conto è la possibilità di sostituzione di una singola base (per esempio una timina con una adenina), che può succedere in occasioni diverse in specie diverse, ma le possibilità che una modificazione così grande e particolare sia potuta avvenire più volte sono praticamente nulle. Quindi gli RGC sono fondamentali per le ricostruzioni delle parentele genetiche.

Però in questo caso, mancando Lemuri in altre zone del mondo, l'unica cosa sicura è che questa mutazione sia avvenuta tra la divergenza dei Lemuri dalle altre Strepsirrine (le lorisine) e quella dell'Aye-aye dagli altri lemuri, che secondo dati abbastanza recenti è paleocenica.

Siccome trovo molto difficile che i Lemuri siano arrivati in Madagascar dall'Eurasia anziché dall'Africa c'è qualcosa che non va: o l'orologio genetico usato è troppo lento (e quindi consegna date troppo spostate indietro nel tempo) o ci sono stati più episodi di popolamento.

Forse il motivo è che analizzare il DNA dei Lemuri è molto diverso rispetto a quello delle altre classi di mammiferi malgasci, che hanno parenti stretti ancora viventi in Africa.
Va detto che progressivamente questo dato si sta spostando in epoche sempre più recenti e che il limite minimo della forbice indicata dalla Poux, 41 MA, è molto vicino al dato di 39 MA ricavato dalla geologia e dalla paleontologia.

Per quanto riguarda il quando e il come questi placentati hanno raggiunto il Madagascar ci possono essere diverse ipotesi:
- un ponte continentale o una serie di isole
- la navigazione su zattere di mangrovie staccate a causa di eventi climatici estremi (o di tsunami)

La prima idea si scontra soprattutto con le evidenze geologiche e con la pochezza degli arrivi: un ponte di terra doveva permettere l'arrivo di altri esponenti della fauna africana.
La navigazione su zattere di mangrovie, accertata in tempi molto recenti per percorrenze non lunghe (fra isole dei Caraibi) è quindi la spiegazione più plausibile (o forse quella meno non plausibile...).

martedì 7 dicembre 2010

I misteri della geologia dell'Antartide Centrale: la Catena Transantartica e il Grande Rift


Giusto un paio di anni fa parlai dei monti Gamburtseev, una enorme catena montuosa sepolta sotto la calotta polare dell'Antartide Orientale. Allora si sapeva ben poco sulle sue origini e oggi l'unica cosa che appare quasi sicura è l'età molto antica, superiore ai 500 milioni di anni: resta da capire come possa essere ancora così alta. Però non è che l'altra grande catena del Continente Bianco sia poi tanto ben compresa.

Nella presentazione di quel post scrissi che come la Gallia di Cesare, anche tutta l'Antartide può essere divisa in “partes tres” e cioè:

- Antartide Occidentale: quella a sud della Terra del Fuoco, formata da un puzzle di almeno 5 blocchi crustali di età paleozoica e mesozoica che si sono scontrati e accavallati l'uno sull'altro (la cartina qui a fianco divide ulteriormente il blocco occidentale in 3 pezzi)
- Antartide orientale, a sud dell'Australia: se ne sa pochissimo, ma dovrebbe essere un altro scudo continentale come quello africano, australiano o canadese, formato da rocce antichissime (sulle coste ce ne sono anche alcune di età ben superiore al miliardo di anni) con in mezzo appunto i Gamburtseev

- questi due blocchi così diversi sono divisi da una struttura composta dalla Catena Transantartica e dal Grande Rift Antartico sulla cui storia ed evoluzione ci sono ancora diversi dubbi

Esaminiamo attentamente sia la catena che il rift, considerandoli strettamente in relazione fra loro.

Al di sotto del Grande Rift Antartico lo spessore della crosta diminuisce fino a poco più di 20 km (nell'Antartide Orientale e in quella occidentale sono comuni valori superiori ai 40 km). Il rift inoltre contiene forti spessori di sedimenti a testimonianza dell'abbassamento del livello del terreno.
Tutte queste caratteristiche sono ricavate da rilevamenti geofisici: con la significativa eccezione delle “valli secche” la copertura glaciale è tale da nascondere persino molti picchi della catena.
La “Catena Transantartica” è un allineamento di 3000 km di imponenti montagne (le vette passano in alcuni casi i 4000 metri di altezza) tra due delle maggiori insenature che bordano lil continente: il Mare di Weddel e quello di Ross,

L'intensa attività vulcanica sul suo margine occidentale dimostra che la formazione della catena, iniziata a metà del Mesozoico, non si è ancora conclusa.

Questo sistema montagnoso esibisce alcune caratteristiche piuttosto insolite che la rendono unica nel panorama terrestre:
- le sue dimensioni sono compatibili con quelle delle normali catene orogeniche, frutto dello scontro fra due zolle, però non è un'orogene derivato dalla collisione di due zolle, bensì un sistema di rift paragonabile alla Rift Valley dell'Africa Orientale
- l'altezza delle sue vette non ha riscontro fra gli attuali sistemi di rift
- la catena e il rift si interpongono fra due aree, cioè le due Antartidi, completamente diverse fra di loro. Che i rift possano impostarsi in zone di precedente debolezza crostale è tutto sommato logico, ma che dividano due zone così diverse succede solo in Antartide.
- nella zona del Mare di Ross ci sono evidenti tracce di movimenti avvenuti nel terziario caratterizzati da una forte componente trascorrente destra che per un rift sono un po' anomali

È comunque sicuro che nel cretaceo la zona della catena transantartica era in erosione, quindi qualcosa di già sollevato c'era.


Il Grande Rift Antartico, parallelo alla catena, ha una storia ancora piuttosto dibattuta. In particolare i modelli dei vari Autori divergono non tanto sull'entità della dislocazione trasversale, quanto sulla eventuale presenza di movimenti trascorrenti e sull'età dell'espansione, secondo alcuni cretacea, secondo altri terziaria.

Le caratteristiche facilmente ricavabili dai sondaggi geofisici sono il forte spessore di sedimenti e il forte assottigliamento crostale.

Probabilmente se ci fosse meno copertura glaciale la situazione sarebbe più comprensibile, però spiegare il tutto con i modelli attualistici è davvero difficile.

A proposito dell'origine della Catena Transantartica sono stati proposte molte ipotesi. Tutte sono in grado di spiegarne alcuni aspetti. Passiamo in rassegna quelle principali:

- nella più recente, di poco meno di un anno fa, Michael Studinger ed il suo gruppo hanno proposto che la catena non sia il risultato di un sollevamento, bensì del cedimento di un plateau continentale la cui superficie era molto elevata, per cui le grandi altezze sarebbero un ricordo della situazione preesistente e non il risultato di un rift: questa ipotesi si accorda bene con i fenomeni erosivi giurassici, giustifica l'altitudine ma scarica il problema ad un'età più lontana: perchè questo plateau così elevato? L'unico esempio attuale di un plateau molto alto è il Tibet, che però si è sviluppato in ambiente orogenico: occorre quindi pensare che all'inizio la catena transantartica fosse un orogene

- movimenti verticali differenziali fra la catena e l'Antartide orientale innescati dal peso dei ghiacci: questa ipotesi darebbe conto anche della altezza dei monti Gamburtseev, che raggiungono quote più elevate di quanto ci si potrebbe aspettare per una catena della loro età

- la differenza nella rigidità dei due blocchi contrapposti: con questa si potrebbe spiegare perchè il rift si è impostato al confine fra due croste così diverse
- la lunga durata dei fenomeni (oltre 60 milioni di anni)

L'ipotesi più classica è la presenza di due pennacchi caldi di mantello, che potrebbe accordarsi bene con i fenomeni vulcanici lungo il mare di Ross e la Terra di Marie Byrd). A questi fenomeni vorrei dedicare uno spazio più ampio.
Dall'Oligocene ad oggi il mare di Ross e l'Antartide occidentale sono interessati da una forte attività vulcanica, comunque iniziata ben dopo l'innescarsi dei fenomeni di rift.

Il mare di Ross, a una delle due estremità del Rift Antartico, è caratterizzato da alti valori del flusso di calore dall'interno della Terra (ben avvertibile agli strumenti nonostante una copertura di sedimenti cretaceo – terziari spessa ben oltre i 10 km!) I vulcani sono essenzialmente allineati lungo il bordo orientale del rift. Tra questi spicca il monte Erebus, in attività permanente e sede di un osservatorio vulcanologico.

Per quanto riguarda l'Antartide Occidentale, sia la Terra di Marie Bird che la Penisola Antartica presentano parecchi vulcani cenozoici ed attuali che si situano sull'altro bordo del rift. Nella penisola antartica sono distinguibili dalle vulcaniti di arco del cretaceo. Fra tutti spicca la caldera di Deception Island, le cui eruzioni nel XX secolo hanno persino danneggiato stazioni scientifiche.

Le due zone vulcaniche vengono comunemente interpretate con la coesistenza di due plumes mantellici, uno sotto il mare di Ross e l'altro sotto la terra di Marie Byrd. Quindi il rift sarebbe il risultato della combinazione di due plumes vicini.


Sergio Rocchi, dell'Università di Pisa, ha indagato di recente sulla questione. Le due ipotesi principali sono:
- questi vulcani rappresentano un punto caldo tipo le Hawaii, sotto il quale c'è la risalita di un pennacchio caldo
- c'è invece un rift attorno al quale il continente si sta rompendo (oppure i movimenti lungo il rift sono un riflesso dei movimenti delle zolle contigue).


L'ipotesi del punto caldo è sostenuta da alcune osservazioni, in particolare da:
- chimismo dei magmi attorno al Mare di Ross
- tettonica della Marie Byrd Land, in cui c'è un regime distensivo (con formazione di horst e graben) su una zona che ha mostrato un forte sollevamento
- l'espansione del rift che appare insufficiente rispetto all'attività vulcanica (quindi non ci sarebbe una significativa evidenza di fratturazione e allontanamento di due zolle).
Una obiezione potrebbe essere che i punti caldi dovrebbero lasciare una scia a causa del movimento delle zolle: le Hawaii, il punto caldo attualmente sotto Yellowstone, la coppia di dorsali Walvis e Rio Grande nell'Atlantico meridionale sono ottimi esempi di questo. Però l'Antartide negli ultimi 40 milioni di anni è rimasta sostanzialmente ferma e quindi questa obiezione viene totalmente destituita di qualsiasi significato.

Ma il problema maggiore è che un punto caldo fisso dovrebbe avere intorno a sè una struttura a duomo, che è stata riconosciuta solo nella terra Marie Byrd mentre il sollevamento cenozoico della Catena Transantartica ha un trend lineare.

Inoltre se gli episodi estensionali principali fossero davvero mesozoici (cretacei – cosa non accettata da tutti gli Autori, come si è visto) precederebbero di oltre 30 milioni di anni il vulcanismo.
Quindi se il chimismo dei magmi incoraggia molto questa ipotesi, altre osservazioni la contrastano. Per questo nelle ricostruzioni di alcuni autori il rift antartico è un riflesso o un prolungamento di alcune dorsali mediooceaniche e quindi lo metterebbero in relazione a più lontani di fenomeni legati alla tettonica a zolle.
 In conclusione da un punto di vista geologico l'Antartide è ancora davvero un regno misterioso, dalla storia per molti versi ancora oscura e non sarà facile venirne a capo, soprattutto per alcune caratteristiche peculiari dell'area